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QUANTO VALE UNA VITA OGGI: LA STRAGE DI ORLANDO

Sono le 2.00 am del 12 giugno, ora locale  – 8 del mattino in Italia -, quando Omar Mateen, un cittadino americano di origini afgane, 29 anni, fa irruzione al Pulse, noto locale gay di Orlando e spara contro la folla. Si stima che fossero in 300 gli ospiti del locale: 50 sono le vittime, 30 gli ostaggi, 53 i feriti.
L’attentatore, già noto all’FBI, prima di morire ha rivendicato la matrice terroristica del suo gesto, una delle più gravi e violente sparatorie di massa degli Stati Uniti.
Il padre dell’uomo ha dichiarato che Omar aveva manifestato la sua rabbia nei confronti di una coppia gay che si baciava in spiaggia a Miami, mesi fa.
Maggiori dettagli emergeranno nei prossimi giorni, quando le autorità faranno chiarezza sull’ennesima follia che è costata la vita a chi pensava di trascorrere un tranquillo sabato sera in compagnia. E invece.

Invece, da qualche parte nel mondo, qualcuno si sveglia e di fronte al suo caffè pretende di vestire i panni del giudice morale, autorizza se stesso a giudicare e soffocare il valore della vita, sporcandolo, macchiandolo di sangue, calpestandolo intonando inni intrisi di ideologie, estremismi e furia cieca; a denigrare la libertà, schernirla, deturparla, modellarla negli stampi della paura e la forza bruta.

Quanto vale una vita oggi per chi resta a fare conti con un inspiegabile perché, per le madri, i padri, i fratelli, gli amici, per chi aspetta ancora qualcuno che non torna, davanti a un telefono che non squilla più?
Quanto vale per chi progetta, uccide, spaventa, distrugge, per chi guarda gli occhi sbarrarsi, piangere, chiedere aiuto, chiudersi – consapevoli, rassegnati, spenti -, per chi considera la morte un’amica, una soluzione?
Quanto vale per chi la perde, per chi non ha il tempo di accorgersi, di provare a proteggersi, a scappare, urlare, pregare; per chi stringe qualcun altro fino alla fine, per chi comprende che quello è l’ultimo secondo?
Quanto vale per chi guarda le immagini delle carneficine il giorno dopo, al telegiornale, per chi scorre le pagine dei giornali in metro o in pausa pranzo?
Che valore ha per chi sopporta tutti i giorni una discriminazione, per chi vive come un pericolo o una colpa la libera espressione della propria personalità?

Questa violenza che sembra sempre più sfuggire a qualsiasi logica, sempre che ne abbia mai avuta una, è imprevedibile, beffarda e sottile. Soppesa nelle sue mani sporche il peso dell’esistenza, poi scrolla le spalle e la butta nel mucchio, come carta straccia. Non conosce pentimento, rivendica e brinda del suo operato, incita, disprezza il mondo, lo sfida. Non conosce altro prezzo se non quello delle armi di cui si serve, altra importanza se non quella del credo che la ispira.

I fumi e il sangue di Parigi si vedono ancora, più recenti, nell’elenco di tappe dell’orrore a cui si aggiungono i locali del Pulse e le lacrime amare dei familiari sconvolti. Le candele, le preghiere, i pensieri, si aggiungono, cambiano lingua, bandiera, simbolo, ma continuano a scandire il tempo di questo universo malato, in cui l’uomo non riconosce più nessuno dei suoi simili come tale. La vita deve passare un esame a crocette, avere i giusti requisiti, dare un buon punteggio, essere uno scolaro diligente. E se fallisce il test, non passa.

In questi giorni di lutto, oltre a condividere il nostro cordoglio, concediamoci un minuto per rileggere la commovente lettera di un uomo che perse sua moglie a Parigi, lo scorso novembre. Le sue parole sono un appello, un grido d’amore nell’oscurità. Condividiamo pensieri positivi come quello che segue, volti a combattere la politica del terrore che ci hanno imposto. E’ bene ricordare che la nostra vita ha una dignità e che nessuno ha il permesso e il diritto di privarcene.  Che anche la vita di tutte le vittime aveva un valore, era un bene prezioso, che ora riposa in un luogo sicuro e felice in cui non c’è posto per gli assassini.

«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.  (…) Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio». 

(Il messaggio di Antoine Leiris, su Facebook, ai terroristi del Bataclan).

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